Gianluca Arienti

Artista visivo, muove la sua ricerca tra immagine e materia, tra luce e superficie
Negli ultimi anni ha scelto la carta come territorio sensibile, corpo vivo, fragile e resistente, dove il segno si fa respiro e la traccia diventa tempo.
Il suo lavoro abita la soglia del crepuscolare: ciò che muta, che si dissolve, che resiste un istante prima di sparire. Nuvole, riflessi, acque in movimento, albe e tramonti: non soggetti, ma stati di transizione. Ogni immagine è un passaggio, un varco aperto sull’instabilità del reale.
La fotografia è il punto d’origine, il primo impulso. Ma ciò che nasce come scatto diventa presto altro: si trasforma, si contamina, si fa racconto in divenire. Come nel cinema, il tempo dell’immagine è costruito nel ritmo, nel montaggio, nella distanza tra un frame e l’altro.
Il caso, dosato, accolto, quasi provocato, agisce come complice silenzioso. Non errore, ma deviazione: l’evento che apre, che sposta, che fa emergere nuovi linguaggi e relazioni. Ogni lavoro è un esperimento di equilibrio, un gesto che misura la materia e lo spazio che la ospita.
Negli ultimi anni ha scelto la fotografia analogica come strumento di lentezza e attesa. Il tempo della rivelazione diventa parte dell’opera stessa: un atto di fiducia nel processo, una sospensione che restituisce al vedere la sua parte di mistero.
La fatica è l’undicesima
Una mela su un libro di storia dell’arte: gesto semplice, quasi ingenuo, eppure carico di una tensione antica. Gianluca sceglie di attraversare la mitologia per tornare all’arte, facendo della Fatica undicesima, il furto dei pomi d’oro del giardino delle Esperidi, una riflessione sul sapere come atto di appropriazione, di eredità, di continua riscrittura.
L’installazione mette in luce come l’arte, nel suo lungo racconto, sia sempre stata un furto reciproco: di tecniche, di intuizioni, di visioni. Ogni artista ruba, consapevolmente o no, qualcosa da chi lo ha preceduto, trasformandolo in un nuovo inizio. La mela, simbolo di conoscenza e disobbedienza, diventa così l’allegoria del sapere che si trasmette rompendo regole, superando dogmi, liberandosi dall’idea di originalità assoluta.
Nella performance, la mela e il libro, coperti da una velina dorata stampata con i volti di Ercole di Franzosini, si rivelano lentamente come refurtiva sacra: il sapere rubato, condiviso, restituito. Al termine, le mele vengono distribuite al pubblico, in un gesto che ribalta l’idea di possesso.
Non più l’artista come eroe solitario, ma parte di una comunità che scambia conoscenza, che riconosce la fatica di ogni gesto creativo: quella, tutta umana, di accantonare il proprio ego per lasciare spazio al comune.

Gianluca Arienti


Artista visivo, muove la sua ricerca tra immagine e materia, tra luce e superficie
Negli ultimi anni ha scelto la carta come territorio sensibile, corpo vivo, fragile e resistente, dove il segno si fa respiro e la traccia diventa tempo.
Il suo lavoro abita la soglia del crepuscolare: ciò che muta, che si dissolve, che resiste un istante prima di sparire. Nuvole, riflessi, acque in movimento, albe e tramonti: non soggetti, ma stati di transizione. Ogni immagine è un passaggio, un varco aperto sull’instabilità del reale.
La fotografia è il punto d’origine, il primo impulso. Ma ciò che nasce come scatto diventa presto altro: si trasforma, si contamina, si fa racconto in divenire. Come nel cinema, il tempo dell’immagine è costruito nel ritmo, nel montaggio, nella distanza tra un frame e l’altro.
Il caso, dosato, accolto, quasi provocato, agisce come complice silenzioso. Non errore, ma deviazione: l’evento che apre, che sposta, che fa emergere nuovi linguaggi e relazioni. Ogni lavoro è un esperimento di equilibrio, un gesto che misura la materia e lo spazio che la ospita.
Negli ultimi anni ha scelto la fotografia analogica come strumento di lentezza e attesa. Il tempo della rivelazione diventa parte dell’opera stessa: un atto di fiducia nel processo, una sospensione che restituisce al vedere la sua parte di mistero.
La fatica è l’undicesima
Una mela su un libro di storia dell’arte: gesto semplice, quasi ingenuo, eppure carico di una tensione antica. Gianluca sceglie di attraversare la mitologia per tornare all’arte, facendo della Fatica undicesima, il furto dei pomi d’oro del giardino delle Esperidi, una riflessione sul sapere come atto di appropriazione, di eredità, di continua riscrittura.
L’installazione mette in luce come l’arte, nel suo lungo racconto, sia sempre stata un furto reciproco: di tecniche, di intuizioni, di visioni. Ogni artista ruba, consapevolmente o no, qualcosa da chi lo ha preceduto, trasformandolo in un nuovo inizio. La mela, simbolo di conoscenza e disobbedienza, diventa così l’allegoria del sapere che si trasmette rompendo regole, superando dogmi, liberandosi dall’idea di originalità assoluta.
Nella performance, la mela e il libro, coperti da una velina dorata stampata con i volti di Ercole di Franzosini, si rivelano lentamente come refurtiva sacra: il sapere rubato, condiviso, restituito. Al termine, le mele vengono distribuite al pubblico, in un gesto che ribalta l’idea di possesso.
Non più l’artista come eroe solitario, ma parte di una comunità che scambia conoscenza, che riconosce la fatica di ogni gesto creativo: quella, tutta umana, di accantonare il proprio ego per lasciare spazio al comune.