Al Fadhil

Nasce a Baghdad nel 1954. Cresce in un contesto attraversato da profondi cambiamenti politici e culturali, dove l’immagine diventa uno spazio di libertà possibile
La sua formazione all’Istituto d’Arte di Baghdad e poi all’Accademia di Belle Arti di Firenze segna l’inizio di una traiettoria nomade, che attraversa continenti, lingue e sistemi culturali. Vive tra Lugano e Berlino, in bilico tra appartenenza e distanza, tra l’urgenza di testimoniare e il desiderio di sparire nel gesto artistico.
La sua opera si muove tra video, performance, installazione e scrittura. Ogni lavoro è un atto di spoliazione: togliere peso, smontare la retorica dell’immagine, ridurre l’arte al suo grado zero. In questo processo, l’artista mette in gioco il corpo e la biografia, ma non per narrare se stesso. Piuttosto, per attraversare le zone d’ombra in cui la storia diventa materia da manipolare, frammento da ricombinare.
“L’arte è una fatica inutile”, ma è proprio in questa inutilità che Fadhil trova la sua funzione più radicale. Fare arte diventa un atto di resistenza al linguaggio dell’efficienza, un modo di sottrarsi all’obbligo del risultato. È una pratica che non produce ma consuma; che non serve, ma insiste. La fatica, in questo contesto, non è spreco ma esercizio: il corpo e la mente come strumenti per mantenere aperta la ferita della coscienza.
L’opera di Fadhil non costruisce monumenti ma esperienze precarie, gesti che svaniscono, immagini che rifiutano la stabilità. È un’arte che non afferma ma interroga, che non redime ma espone, che cerca nel fallimento una forma di verità. Tra Baghdad e l’Europa, tra la memoria e il presente, Al Fadhil ha scelto di abitare l’arte come un campo instabile, un territorio dove la fatica diventa libertà e l’inutile, finalmente, necessario.

Al Fadhil


Nasce a Baghdad nel 1954. Cresce in un contesto attraversato da profondi cambiamenti politici e culturali, dove l’immagine diventa uno spazio di libertà possibile
La sua formazione all’Istituto d’Arte di Baghdad e poi all’Accademia di Belle Arti di Firenze segna l’inizio di una traiettoria nomade, che attraversa continenti, lingue e sistemi culturali. Vive tra Lugano e Berlino, in bilico tra appartenenza e distanza, tra l’urgenza di testimoniare e il desiderio di sparire nel gesto artistico.
La sua opera si muove tra video, performance, installazione e scrittura. Ogni lavoro è un atto di spoliazione: togliere peso, smontare la retorica dell’immagine, ridurre l’arte al suo grado zero. In questo processo, l’artista mette in gioco il corpo e la biografia, ma non per narrare se stesso. Piuttosto, per attraversare le zone d’ombra in cui la storia diventa materia da manipolare, frammento da ricombinare.
“L’arte è una fatica inutile”, ma è proprio in questa inutilità che Fadhil trova la sua funzione più radicale. Fare arte diventa un atto di resistenza al linguaggio dell’efficienza, un modo di sottrarsi all’obbligo del risultato. È una pratica che non produce ma consuma; che non serve, ma insiste. La fatica, in questo contesto, non è spreco ma esercizio: il corpo e la mente come strumenti per mantenere aperta la ferita della coscienza.
L’opera di Fadhil non costruisce monumenti ma esperienze precarie, gesti che svaniscono, immagini che rifiutano la stabilità. È un’arte che non afferma ma interroga, che non redime ma espone, che cerca nel fallimento una forma di verità. Tra Baghdad e l’Europa, tra la memoria e il presente, Al Fadhil ha scelto di abitare l’arte come un campo instabile, un territorio dove la fatica diventa libertà e l’inutile, finalmente, necessario.