Massimo De Caria

Con le misure minime del visivo
Di Massimo De Caria è notevole l’acribia sottile (ma sempre con un fondo di souplesse e retrogusti di jeu) con cui scava nel profondo la ragioni deimateriali e dei loro comportamenti. È un approccio che molto ha a che fare con la tecnologia, e con le misure del minimo visivo: non crea visioni, piuttosto situazioni, circostanze ansiose, costringe lo spettatore a diffidare del puro sguardo e a vagare nelle aree di transito e contaminazione della sensorialità: contano parimenti anche i rumori, i suoni, i movimenti, la natura comunque sempre sostanziale delle materie implicate. E le dinamiche di movimento, che l’autore mette in campo apertamente ma subito sottraendosi a ogni intelligenza dell’effetto, dello spettacolo possibile. Certo, la creazione di situazioni plastiche di De Caria opera su un limite non lontano dalla demateriazione, così come sul confine succosamente tentato tra la ratio concettuale progettante e la deriva del senso. Collocarla nel tempo interno dell’arte porta inevitabilmente a evocare Tinguely e Nicolas Schöffer, Gianni Colombo e certe esperienze dell’arte povera – adesempio Giovanni Anselmo e il primo, straordinarioClaudio Costa: e l’origine di tutto è il radicalismo originario di Piero Manzoni, la sua remise en question inappellabile d’ogni protocollo eretto a canone dell’arte.
De Caria, nato nel 1968, non solo è figlio di quei precedenti, ma quelle vicende ha potuto considerare pienamente fondative. Dunque può fare a meno ormai d’ogni preoccupazione dimostrativa, ridurre il proprio agire alla nudità essenziale, e verrebbe da dire monacale, di atti minimi che dichiarano di sé solo l’essere brividi del pensiero che non enunciano altro che il loro possibile. A proposito della antica vexata quaestio del pensiero debole, le sue idee sono chiarissime: un pensiero, se è un pensiero, è per forza forte, e non ha
bisogno di esibire muscolarità per affermarsi al mondo: può esistere, farsi scoprire, anche nel mormorio ritratto di queste opere.
(F.G.)

Massimo De Caria


Con le misure minime del visivo
Di Massimo De Caria è notevole l’acribia sottile (ma sempre con un fondo di souplesse e retrogusti di jeu) con cui scava nel profondo la ragioni deimateriali e dei loro comportamenti. È un approccio che molto ha a che fare con la tecnologia, e con le misure del minimo visivo: non crea visioni, piuttosto situazioni, circostanze ansiose, costringe lo spettatore a diffidare del puro sguardo e a vagare nelle aree di transito e contaminazione della sensorialità: contano parimenti anche i rumori, i suoni, i movimenti, la natura comunque sempre sostanziale delle materie implicate. E le dinamiche di movimento, che l’autore mette in campo apertamente ma subito sottraendosi a ogni intelligenza dell’effetto, dello spettacolo possibile. Certo, la creazione di situazioni plastiche di De Caria opera su un limite non lontano dalla demateriazione, così come sul confine succosamente tentato tra la ratio concettuale progettante e la deriva del senso. Collocarla nel tempo interno dell’arte porta inevitabilmente a evocare Tinguely e Nicolas Schöffer, Gianni Colombo e certe esperienze dell’arte povera – adesempio Giovanni Anselmo e il primo, straordinarioClaudio Costa: e l’origine di tutto è il radicalismo originario di Piero Manzoni, la sua remise en question inappellabile d’ogni protocollo eretto a canone dell’arte.
De Caria, nato nel 1968, non solo è figlio di quei precedenti, ma quelle vicende ha potuto considerare pienamente fondative. Dunque può fare a meno ormai d’ogni preoccupazione dimostrativa, ridurre il proprio agire alla nudità essenziale, e verrebbe da dire monacale, di atti minimi che dichiarano di sé solo l’essere brividi del pensiero che non enunciano altro che il loro possibile. A proposito della antica vexata quaestio del pensiero debole, le sue idee sono chiarissime: un pensiero, se è un pensiero, è per forza forte, e non ha
bisogno di esibire muscolarità per affermarsi al mondo: può esistere, farsi scoprire, anche nel mormorio ritratto di queste opere.
(F.G.)